Archivio degli autori

Il Confine di Silvia Cossu

Con Il Confine (Neo Edizioni) Silvia Cossu è al suo quarto romanzo. Si sente, nelle sue pagine, una grande maestria da scrittrice d’esperienza, una certa sapienza narrativa. Appena si inizia a leggere questo libro si viene travolti da un’atmosfera rarefatta, avvolti da una trama all’apparenza semplice, ma con molteplici stratificazioni.

Con i tempi e i modi di un racconto che, come un piccolo giallo dell’anima, con grande sapienza costruttiva, avvicina ad una più profonda domanda di senso. Quasi un viaggio iniziatico” dice Renato Minore, che l’ha candidata al premio Strega. E ha ragione, soprattutto sulla sapienza costruttiva.

Una storia che ha come protagonista una scrittrice che ha perso il gusto di scrivere ma che per vivere racconta le storie di uomini celebri, finiti però in disgrazia e dimenticati dal mondo. Le mette su carta, a pagamento ovviamente. Quando incrocia un famoso e misterioso psichiatra, Mosco, e questo medico le offre una grande cifra per scrivere la sua storia e ascoltare in più sedute le sue vicende, queste due vite si incrociano e il risultato è imprevedibile.

Il libro si apre subito con una rivelazione, e poi va a ritroso: “Cinque anni fa ho intervistato uno psichiatra conosciuto attraverso un’amica comune. (Un nome noto). Ci siamo incontrati quasi ogni giorno nel suo studio. Ho registrato trenta ore di materiale. La sua vita, le circostanze più o meno fortuite che lo hanno avvicinato alle terapie brevi e a praticarle per oltre quarant’anni. Soprattutto quella subliminale. Poi, senza alcun preavviso, arrivati alla fine, è sparito. […] Lo sgomento, rigirando tra le mani il biglietto appena ricevuto, poco a poco si rifà vivo. La cerimonia è prevista tra due giorni. Mi chiedo chi abbia spedito la partecipazione. La sensazione di essere osservata torna a punger- mi come un sottile senso di colpa. Ora che il suo corpo non respira più, è solo un ammasso inerte, so di essere stata anch’io par-te del suo gioco.

La biografa fa un mestiere insolito e a suo modo affascinante, instaurando un particolare rapporto con i suoi clienti. Ce lo spiega: “È vero che sfrutto la vanità altrui, ma il risultato produce un conforto duraturo. In più, c’è l’incognita del percorso che si intraprende insieme, che una volta concluso può essere riattraversato innumerevoli volte, con pause e letture diverse.” Davanti a questo nuovo cliente, a questo schivo e misterioso dottore, potente, rivoluzionario, attaccato al denaro, qualcosa cambia. Il percorso non è lineare come al solito. Il confine tra biografa e cliente non è più tanto scontato. Chi è, questo psichiatra? Cosa vuole che venga raccontato?

Che ci sia una verità da scovare contro e nonostante lui, mi alletta. L’ipotesi di rovesciare i piani e pormi come analista di uno psichiatra, perché in fondo è così che l’ha messa” dice a un certo punto la protagonista. Che inizia a mettere insieme i vari pezzi che vanno a formare la storia di Mosco, i suoi esordi nel campo della medicina. I suoi successi. I suoi eccessi.

Gli incontri con Mosco per realizzare il libro, si trasformano sempre più spesso in qualcosa di altro: viaggi in auto per incontrare barboni; confronti sui romanzi scritti dalla biografa; inquietanti scambi di idee e riflessioni al limite.

Il racconto su Mosco intanto continua, si arricchisce di pagine la sua biografia: “Mosco ha scoperto che mescolare la suggestione del teatro con le tecniche più avanzate delle terapie brevi, creando per ogni paziente un set specifico, ha l’effetto di potenziarne l’esito”.

Mosco e il rapporto con i soldi. Mosco e le donne. Mosco e l’alone di mistero che lo circonda. Indagare nella vita di Mosco, serve alla protagonista per guardare dentro se stessa. I piani si confondono. I confini si fanno rarefatti. Le terapie brevi. Realtà e finzione. Irma e il sesso. Realtà e bugia. Il sonno, il sogno. La paura. La memoria. Fin quando Mosco scompare, fa perdere le sue tracce, e la situazione sembra implodere, forse esplodere.

La bella lingua di Silvia Cossu non esagera mai, è elegante e precisa. E come in un puzzle serve a costruire una storia che si arricchisce tassello dopo tassello. Spiazza, spesso. Indizio dopo indizio si arriva allo svelamento finale. I vari punti di vista, le varie sequenze di questo romanzo che è allo stesso tempo molto filmico e delirante come un sogno da ubriachi, rendono la narrazione sempre tesa, l’effetto finale straniante e originale. Neo edizioni, a pochi mesi di distanza da Beati gli inquieti di Redaelli, torna a proporre un romanzo brillantemente costruito che parla di psichiatria e, in qualche modo, di sanità mentale. Il risultato è sorprendente.

Silvia Cossu è nata a Roma. Ha scritto per Marsilio i romanzi La vergogna e L’abbraccio, e per la collana “Strade-Blu” di Mondadori un memoir usando uno pseudonimo, tradotto in Germania. Due suoi racconti sono presenti nelle antologie I racconti delle fate sapienti (Frassinelli), e Pensiero Madre (Neo Edizioni). Per il cinema ha sceneggiato diversi film (BluffL’ospiteFino a farti maleCrushed Lives – Il sesso dopo i figliIo lo so chi siete) selezionati nei più importanti festival internazionali. Il confine è il suo quarto romanzo.

Antonio Benforte

Sopra un fiume nero di Domenico Infante

L’amico scrittore Domenico Infante, di cui in passato ho divorato tutti i libri, esce con un nuovo romanzo, un bel thriller dalla trama molto interessante.

Domenico sa come pochi altri scrittori appassionare con le sue storie, la scrittura dosa con equilibrio parole ed emozioni, ed era da tempo che aspettavo un suo nuovo lavoro. In attesa di leggerlo, ecco la scheda.

Sopra un fiume nero esce per Porto Seguro. Dalla prossima settimana sarà possibile ordinare il libro anche in libreria e sulle piattaforme online. Il libro sarà presentato sabato al Porto Seguro Show, alle 18:30, al Voia Art Gallery, in via Nomentana 926.

Marco Rabini è un bravo informatico romano. Mentre è in coda nel traffico del GRA, diretto a Formia per un imprevisto intervento presso un’azienda, una ragazza esce da un’auto sportiva e irrompe nella sua auto e nella sua vita. Arrivati a destinazione, la lascia per andare al lavoro e la sera la ritrova nel suo letto. La connessione tra di loro è immediata. Il sabato pomeriggio, finito il lavoro, torna in camera e trova la ragazza sgozzata, in bagno, nella doccia sotto un getto di acqua calda. Latitante, comincia a cercare l’assassino della ragazza, che risponde al nome di Grigori. Ma Grigori non è solo il suo demone personale. Grazie al mondo che meglio conosce, il web, Marco scoprirà di essere vittima di qualcosa ben più grande di lui, un gioco profondo, un gioco pericoloso. Con un intenso ritmo narrativo e un finale assolutamente imprevisto, Domenico Infante ci regala un thriller intrigante, dove tra espedienti informatici e amici fidati ci mostra dove può arrivare un uomo per scoprire la verità. Biografia: Domenico Infante è nato a Napoli il 4 luglio 1963. Vive lì i primi 40 anni poi si trasferisce a Roma. Lavora nel settore informatico in un gruppo che si occupa di voce su internet e di cyber security. Per Porto Seguro Editore pubblica nel 2022 Sopra un fiume nero.

Antonio Benforte

L’albero delle farfalle di Paolo Mascheri

Di questi tempi, essere scrittori significa, prima di tutto, fare promozione di sé stessi. Eventi, presentazioni, essere online, apparire. Alle volte, la forma prende il sopravvento sulla sostanza. Ci sono poi invece scrittori, come Paolo Mascheri, digitalmente schivi e riservati, che non hanno social se non un profilo facebook aperto da poco, che non scrivono ovunque e di tutto e anzi, preferiscono dosare le uscite letterarie. Paolo, addirittura, aveva smesso di scrivere. Lo dice, appunto, su facebook: “Ho passato anni interi senza scrivere nemmeno una riga. È stato nel 2017 che ho ripreso costantemente a farlo. Una sera di maggio di quell’anno mi imbattei in 20000 Days on Earth. Il docu-film di Forsyth e Pollard su Nick Cave. Sprofondato nel divano, rimasi rapito dal monologo finale accompagnato dalle note di Jubilee Street in cui Cave invitava a non essere inattivi- all of our days are numbered-, a concretizzare le proprie idee, a proteggere la piccola fiamma della propria intuizione perché attorno ad essa potevano essere costruite grandi cose… “

Ringraziamo quindi Nick Cave anche per questo, per aver ridato forza e voce nuovamente a uno degli scrittori più talentuosi della generazione nata tra i Settanta e gli Ottanta. Mascheri avevi esordito in narrativa con Poliuretano nel 2004, per Pendragon, e aveva confermato l’ottima scrittura e i contenuti con Il Gregario, minimumfax, uscito nel 2008, potente romanzo sul declino italiano e sul malessere della nostra generazione senza punti di riferimento.

Ecco, a distanza di 13 anni Paolo Mascheri torna con L’albero delle Farfalle, stavolta Edizioni Pequod. Anche stavolta l’autore si conferma, con un’opera ancora più matura e toccante delle precedenti.

Un romanzo sofferto, doloroso, che scava nei rapporti figlio-Madre e nella famiglia. I capitoli sono divisi per nomi – Costanza, Riccardo, Roberto, Eleonora – e ognuno descrive una porzione di mondo da un determinato punto di vista. Ci raccontano una storia di vita quotidiana. Ci parlano del progressivo disfacimento dei corpi umani. Ci descrivono l’incomunicabilità di una famiglia, lo sfaldamento delle certezze di un uomo – un medico di base, depresso e chiuso in se stesso – alle prese con la malattia della Madre.

L’albero delle farfalle è un libro potente e lacerante, dove i protagonisti sono due: Costanza, la Madre, ex professoressa in pensione che combatte da anni contro un tumore che non va via e suo figlio Riccardo, che ha messo in modo testardo – e, per molti versi, giusto – la lotta contro la malattia di chi l’ha generato, prima di ogni altra cosa della sua vita.

Mascheri ci racconta soprattutto il rapporto tra questi due personaggi così delicati e complessi, e il difficile equilibrio che deflagra nella famiglia – ristretta o allargata che sia – quando la malattia scombina le carte in tavola. I vari capitoli della prima parte contribuiscono ad aggiungere progressivi tasselli a questo quadro famigliare – con la figlia piccola, la moglie Eleonora, il padre di Riccardo, Roberto, commercialista preso dal suo lavoro e dagli incontri Rotariani – e tracciano meglio le coordinate di questa vita, nella campagna toscana. La seconda parte e l’epilogo, più brevi e improvvisi, segnano la conclusione del libro – Crikvenica – una conclusione deflagrante, carica di speranze (attese? disattese?), che, per scrittura e emozioni suscitate, scava nell’animo nel lettore un solco indelebile.

Il rapporto tra questa madre e questo figlio, così lontana dagli stereotipi, così genuino, semplice e sincero, emoziona in più momenti. La passione comune del giardinaggio, tra i due, si riflette nel frequente utilizzo di termini tecnici, o nomi di piante precise, come appunto la buddleia che dà il titolo al libro (comunemente conosciuta, appunto, come albero delle farfalle).

Alcuni momenti che restano ben fissati nella mente: il rapporto nonna-nipote, la scena del primo attraversamento della strada della piccola, per fare la spesa ed evitare alla nonna di entrare in bottega, di alimentare le voci del paese; le descrizioni di questo entroterra toscano, così placido e rigoglioso di vegetazione; il lungo sogno-viaggio della speranza a Milano dal dottore, il Professor Sensini, per sferrare l’ultimo attacco alla malattia di Costanza.

L’autore fa della sua prosa elegante, della scrittura equilibrata, del lessico variegato, i punti cardine del suo modo di raccontare. Non ci sono mai parole di troppo. Si direbbe scrittura “chirurgica”, ma il termine è abusato e non riuscirebbe neanche a racchiudere in realtà la qualità di questa prosa. Speriamo di non dovere attendere altri quasi 15 anni per poter leggere un altro romanzo di questa forza.

Antonio Benforte

Entanglement Trio – “A brief history of time”

Il primo disco di Entanglement Trio “A brief history of time” , firmato nusica.org e uscito a fine novembre, è un lavoro sperimentale e stratificato.

Solitamente l’etichetta trevigiana ci aveva abituato a sonorità puramente jazz e, anche dove non propriamente classiche, comunque in binari ben definiti. Questo disco fa invece dell’improvvisazione e della sperimentazione la sua caratteristica principale.

Il gruppo, composto da Beatrice Arrigoni (voce), Matteo Lorito, (basso e live elettrocnics) Andrea Ruggeri (batteria e percussioni) approfondisce le relazioni tra improvvisazione e scrittura, parola scritta e suono, acustico ed elettronico, e riflette a suo modo sul tempo, nella letteratura e naturalmente in ambito musicale.

Sette tracce inedite nate intorno alle teorie di Stephen Hawking e alla poesia di T.S. Eliot. Qui le parole del trio, che definiscono le coordinate del disco: “Questa idea ritrova le proprie radici in una metafora cosmogonica della creazione del linguaggio musicale. È in tal modo che abbiamo provato ad immaginarla: una sorta di Big Bang dal quale la materia, dapprima informe, nasce, prenda forma ed inizia a costruire quella complessa rete di relazioni che dà vita all’universo dei suoni. All’interno di questi processi un ruolo essenziale è giocato dall’elettronica.”

Tutto è un po’ riassunto nella seconda traccia, Hidden music, lunghissima suite – quasi 30 minuti! – in cui gli strumenti si susseguono, così come i generi, ci sono silenzi, testi recitati, fischi, composizioni elettroniche, sono tanti i livelli e i significati da ricercare. Un disco di ricerca, questo, che però non pregiudica l’ascolto. Con Formal pattern siamo in territori più standard, e si apprezza a pieno la bella ed elegante voce della Arrigoni; Sunlight lascia che invece sia il contrabbasso di Lorito ad essere pieno protagonista. The surface, A cloud ed Eternally present sono le tre tracce che chiudono il disco e che lasciano grande libertà all’espressione travolgente della musica dei solisti.

Antonio Benforte

Più o meno gli stessi di Paolo Bargagli

Ho giocato a tennistavolo a buoni livelli da ragazzino, poi ho abbandonato neanche quindicenne, ripreso a sprazzi senza allenarmi mai con costanza. Però amo il tennistavolo come sport, per me è una vera e propria filosofia di vita, per certi versi. Una cosa che ho sempre riscontrato è che, rispetto ad altri sport  – ovviamente più noti -, la produzione letteraria a tema tennistavolo fosse ridotta, o meglio diciamo la verità, nulla.

Per questo motivo quando ho intercettato in un gruppo facebook gli aneddoti e i post che Paolo Bargagli scriveva con frequenza, partendo dalle sue avventure agonistiche negli anni 70 e 80, ho stropicciato gli occhi e quasi non ci credevo.

La stoffa dello scrittore, avendo lavorato nel settore editoriale per un po’ di anni, l’ho subito fiutata. E devo confessarlo, pur non conoscendolo ho chiesto la sua amicizia e gliel’ho scritto: “Ma queste storie devi pubblicarle”.

Lui, con fare un po’ modesto, non ha confermato né smentito, ma quando poi ha dato alle stampe “Più o meno gli stessi – Piccole storie di sport, di amicizia e di ragazzi che non mettono giudizio”, mi sono entusiasmato.

E sono stato ancora più felice di averlo ricevuto in dono, dono che considero prezioso non solo perché arriva da un campione del tennistavolo, ma perché gli aneddoti che contiene sono sinceramente ineguagliabili. La veste grafica è accattivante – stupendi i numeri di pagina con racchettina – le foto sono preziose.

Alcuni di questi aneddoti li avevo già letti come post di facebook, ma molti ammetto essermeli persi, perché forse l’algoritmo del social network di Zuckerberg non ha funzionato a dovere. Ma come, mi sono detto! I post di Bargagli sono una delle poche cose per cui vale la pena essere ancora iscritto a questo social di boomer e narcisisti.

Partiamo dalla veste grafica: Paul Klee in copertina con un’immagine che ricorda una racchetta – forse pongista anche il famoso pittore? – bella carta, immagini a colori pazzesche. Un lavoro davvero ben fatto, ad esempio io sono impazzito per i numeretti di pagina a forma di racchetta.

Ma veniamo ai contenuti, scritti da Bargagli, “creatura ricca di curiosità e assetata di cose belle” come lo descrive Milo De Angelis nella prefazione. Abbiamo tanti brevi ma densi profili di pongisti, o racconti sul tennistavolo, scritti con una passione unica, che solo chi ama alla follia questo sport può far trapelare. Dai primi approcci con questo sport alle prime vittorie, passando per i viaggi in giro per il mondo- ah, la Cina! –  e alcune sfide memorabili, le pagine filano via veloce. La cosa che subito emerge, la sottolinea Alessandro Bernardi nella postfazione al volume: “Del tennistavolo di Paolo, oggi, restano i ricordi […] Per rievocarli Paolo utilizza i più diversi registri, ma la cifra stilistica utilizzata è comunque l’ironia; una ironia che non riesce a celare la nostalgia per le cose amate e vissute una volta”.

Per meglio orientarsi, sono divisi in sezioni: “raccontini di stupore e ping-pong giramondo”, “raccontini di viaggio, musica e compagnia bella”, “Per farla breve”, Raccontini di campioni ritratti a matita”, “Raccontini di sport a briglia sciolta”, “Raccontini di amicizia e ping-pong italiano”.

Per me, classe 83 cresciuto nel mito di Waldner e Saive, ci sono ammetto alcuni nomi mai sentiti prima. Ma tanti profili sono irresistibili, anche se si parla della bella e ineffabile Valentina Popova – che non conoscevo – o di altri atleti che giocavano negli anni 60 – 70. Si ride, tanto, ma si riflette anche molto: sulle differenze che ci sono sempre state in questo sport tra la Cina e l’Italia, sulla filosofia del “saper perdere”, sul perché, parliamoci chiaro, il Tennistavolo sia uno sport tra i più belli e appassionanti che esistano.

Si ricorda Giontella – per me un vago ricordo, un campione memorabile – si parla di Milan Stencel, allenatore dell’Italia dall’89 al 92. C’è una fenomenale sfida in doppio proprio contro il Maestro, al quale Bargagli ricorda di aver regalato un bel bollino rosso sul braccio, con una pallinata. Ancora Secrètin, che per me era solo un nome e grazie ai racconti di Paolo ho conosciuto per le sue imprese.

Fortissimo il raccontino “Storia incompleta del servizio”; leggendo le varie pagine scopro che fino a metà anni 80 si potevano avere due gomme dello stesso colore, che l’antitop con gomme colorate uguale metteva in difficoltà tutti. E ancora: Costantini, Bisi, Maietti, l’allenatore della nazionale Tiao.

Molto originali anche i racconti non legati al ping pong, che denotano la grande cultura di Bargagli, l’amore per la musica, il cinema, i viaggi… il libro si lascia leggere, appassiona anche i non amanti del tennistavolo, perché l’autore scrive davvero bene, benissimo!

Un libro che ho letto con grande piacere insomma, e che mi ha permesso ancora una volta di capire perché amo tanto questo sport, che ho praticato dal 91 al 95 con costanza e a buoni livelli, e poi preso e riabbandonato almeno un altro paio di volte. Complimenti a Bargagli per aver scritto questo libro. Volendo prendere in prestito le parole citate in una delle storie del volume: l’ho goduto molto!

Antonio Benforte

L’albero delle farfalle di Paolo Mascheri

Esce in questi giorni per Pequod (ed è disponibile su Ibs) il nuovo romanzo dello scrittore aretino Paolo Mascheri, grande narratore, folgorante col suo esordio Poliuretano e confermato dall’ottimo Il Gregario, uscito per minimumfax ormai 13 anni fa.

Abile tessitore di trame, dalla scrittura misurata e tagliente, eccezionale nell’indagare i profondi rapporti tra persone e i legami famigliari, Mascheri coi suoi due libri precedenti si inseriva a pieno titolo tra i miei scrittori italiani contemporanei preferiti. Aspettavo un suo nuovo libro da tempo, e ora eccolo qui.

Copertina e bandella qui di seguito

Antonio Benforte

XYQuartet – QuartettoQuartetto

Nuovo progetto di qualità di Nusica.org. QuartettoQuartetto è nato dalla sinergia tra XYQuartet e il Conservatorio di Musica di Vicenza Arrigo Pedrollo.

QuartettoQuartetto è un originale lavoro di orchestrazione di celebri hit di XYQuartet, riarrangiati dalla band e dal compositore Gianmarco Scalici. Apprezziamo infatti sei brani storici del gruppo (Titov; Malcom Carpenter; Spazio Angusto; Vale Vladi; Consecutio Temporum e Pax Vobiscum) e due inediti (No Evidence; Essential) registrati ed eseguiti insieme a quattro musicisti del Conservatorio Arrigo Pedrollo di Vicenza.

QuartettoQuartetto ripercorre la storia di XYQuartet, con Alessandro Fedrigo al basso elettrico, Nicola Fazzini al sassofono, Saverio Tasca al vibrafono e Luca Colussi alla batteria, insieme ai percussionisti Christian Del Bianco, Paolo Zanin, Rossano Muzzupapa, Luca Gallio, e l’ausilio della classe di musica elettronica, Gli otto musicisti danno vita a un disco pensato per indagare nuove soluzioni timbriche e ritmiche, in cui marimbe, gong, campane tubolari, archi, timpani colorano gli otto brani dell’album.

Titov (N.Fazzini) dedicata al secondo cosmonauta nello spazio e un intreccio di metri ritmici diversi esaltati dalle timbriche delle percussioni; Malcolm Carpenter (N.Fazzini), composizione poliedrica che utilizza diverse tecniche timbriche, ritmiche e armonico-compositive, ispirata alla vita dell’omonimo astronauta; Spazio Angusto si basa sull’assemblaggio di elementi ritmici e melodici binari e ternari in un unico groove, riorchestrata da Gianmarco Scalici con ampio uso di diverse percussioni, incluso body percussion. E ancora, Vale Vladi (S.Tasca) arrangiamento/riscrittura del materiale compositivo contenuto nei brani “Valentina Tereshkova” e “Vladimir Komarov” contenuti nell’album Orbite (2017) in cui si può dire, semplificando, che ogni coppia di note contiene in sé la propria sorgente e il proprio ritmo.

E ancora Consecutio Temporum (A.Fedrigo) dove si susseguono continue variazioni di tempo, comprese delle modulazioni metriche. Le strutture intervallari sono organizzate in forma di spirali che continuamente si contraggono e si espandono e che vengono permutate attraverso i vari strumenti. Nell’orchestrazione per questo ensemble si simula il meccanismo di un macchinario che si mette in moto, accelera e rallenta improvvisamente.

Le fa eco Pax Vobiscum (A.Fedrigo) un momento di pace apparente, di meditazione che al suo interno possiede dissonanze forti e contrasti dinamici. L’elemento centrale in questa composizione è la narrazione di uno stato d’animo che evolve e in queste evoluzioni incontra i solisti improvvisatori. Le percussioni sono parte della narrazione e enfatizzano i contrasti con la potenza dei timbri possibili.

A questi brani si aggiungono gli inediti No Evidence, composizione inedita di Nicola Fazzini riarrangiata da

Saverio Tasca e Luca Colussi, un vero mascheramento della composizione Evidence di Thelonious Monk ed Essential composta ed arrangiata da Tasca.

XYQuartet | QuartettoQuartetto

Nicola Fazzini (alto sax)

Alessandro Fedrigo (bass guitar)

Saverio Tasca (vibes)

Luca Colussi (drums)

Christian Del Bianco (percussions)

Paolo Zanin (percussions)

Rossano Muzzupapa (percussions)

Luca Gallio (percussions)

XYQuartet è uno dei gruppi più apprezzati della nuova scena del jazz italiano. Con alle spalle tre incisioni e numerosi prestigiosi concerti in Italia e all’estero è stato premiato nel 2014 e nel 2017 come secondo miglior gruppo italiano nel sondaggio della critica indetto dalla rivista Musica Jazz.

Antonio Benforte

Presentazione a Villa Fernandes

Che bella cornice per la prima presentazione ufficiale del mio nuovo romanzo, finalmente davanti a un pubblico “reale”. Villa Fernandes è un luogo incantevole, un centro culturale importante donato alla cittadinanza.
Grazie a Antonella Renzullo e Ileana Bonadies per l’accoglienza e il confronto, e a tutti i presenti con i quali ho scambiato una chiacchiera in questa splendida serata.
Buona la prima!

Antonio Benforte

“Azzorre” di Cecilia Maria Giampaoli

Ho letto “Azzorre” di Cecilia Maria Giampaoli, edito da Neo Edizioni e da poco arrivato in libreria. Un testo sofferto e toccante, in cui la scrittrice mette a nudo sé stessa e il dolore che si porta dentro, da più di 30 anni. La data attorno cui ruota tutto è l’8 febbraio 1989. “Un aereo sorvola l’oceano. È partito da Bergamo diretto a Punta Cana. L’equipaggio si prepara a fare scalo alle Azzorre, sull’isola di Santa Maria. Alle 13:08, ora locale, un boato. L’aereo si schianta contro il versante di una montagna. Niente fiamme. Nel bosco cala il silenzio. 144 persone perdono la vita, io perdo mio padre. Le testimonianze raccolte in questo diario non possono né vogliono sostituirsi in alcun modo ai fatti accertati dalle indagini, ormai chiuse, sul caso. Nel rispetto delle persone incontrate e delle loro storie, tutti i nomi sono stati cambiati.” Cecilia ci immette subito nel vivo di questa narrazione che mescola il racconto personale, i ricordi, le testimonianze di chi ha vissuto questa grande tragedia.



Ai tempi Cecilia aveva 6 anni. Era una bambina, che 25 anni dopo decide di partire per l’arcipelago portoghese. E affrontare tutto.
Prende coraggio e rivive quei momenti, quei ricordi lontani, quel dolore sempre vivo, anche a distanza. Con la giusta consapevolezza, ormai donna, intraprende un viaggio “fatto di persone e luoghi, di testimonianze, ricordi, reticenze, incontri fortuiti e voluti; un viaggio privo di compatimenti, intrapreso nella speranza che possa esistere una verità di altra sostanza, a suo modo liberatoria”.


Quel che ne esce parte come un diario personale, ma poi diventa molto di più.
“Non ho un vero programma per questo viaggio e seguire il corso degli eventi mi sembra comunque la soluzione migliore, l’unica” scrive Cecilia nelle prime pagine del libro.

Cecilia incontra persone, parla con la gente, cercando di ricostruire il passato, di dare un senso a tutto.
Nel farlo, intende ricordare suo padre. «Le persone che muoiono non scompaiono, si manifestano in noi, nei nostri cambi d’umore e in questo modo ci seguono nel corso della vita» spiega a un certo punto Tadeu Manuel Duarte, responsabile di una delle chiese di Lisbona, con il quale dialoga Cecilia prima di decollare verso l’arcipelago.

Nelle pagine del libro, che pur non essendo propriamente un romanzo ne conserva una certa struttura e originalità, sono tanti gli incontri che fa in diversi luoghi. Il suo è un vero e proprio viaggio catartico, necessario. Un diario semplice nella scrittura ma commovente e stratificato nei contenuti. Gli occhioni grandi della bimba in copertina, ora adulto io narrante, provano a ricostruire tutto.

Il viaggio vero e proprio inizia: “Nel pomeriggio mi imbarco sul volo per le Azzorre. Lascio Lisbona diretta verso il centro dell’Atlantico, dove passerò le prossime settimane. Non conosco nessuno. Non serve che spieghi nel dettaglio come sono riuscita a trovare gente disposta a ospitarmi. Questione di fortuna: ho trovato alcuni indirizzi, ho scritto delle mail, qualcuno ha risposto. La prima è stata una donna, so solo che si chiama Teresa.  Starò da lei per qualche giorno. Verrà a prendermi in aeroporto. Così ha detto”.

I periodi sono brevi, incisivi. Piano piano si compone il quadro. Frammenti, tessere di un puzzle: “L’aereo si schiantò contro la montagna. È unica e centrale.” O ancora, dice Cecilia: “Non sono venuta per riportare in vita mio padre, il passato è passato e non si può rifare, ma ho un conto aperto con questo posto. Nel male e nel bene, sarei diversa se non fosse successo. Non sarei io.”

Cecilia esplora. Cecilia studia. Cecilia vuole conoscere il posto in cui per suo padre è tutto finito. La narrazione procede con questi che sono dei piccoli racconti, delle piccole istantanee della vita sull’isola. Nel leggerli, sembra di starle accanto, di fare questo viaggio insolito insieme a lei. Molto spesso il racconto diventa commovente, oltre che estremamente interessante sotto diversi punti di vista. Ci si prova a immedesimare nella protagonista, ma non ci si può riuscire. Ma non per demeriti della narratrice, anzi, ma perché questo dolore non può che essere un peso inimmaginabile, difficile da spiegare a parole. Ma non per questo si deve rinunciare a narrarlo, a raccontarlo, per capire e comprendere. Il romanzo reportage diario continua e Cecilia completa il suo percorso di ricostruzione e costruzione, di una memoria e di un passato che in tanti hanno dimenticato.

A un certo punto il racconto si fa ancora più toccante e spiazzante: “Leggere la cronaca sull’incidente qui, all’aeroporto di Santa Maria, mentre le due turiste leccano il gelato, è surreale. Non so perché non l’abbia fatto prima, perché non abbia cercato i dettagli di questa storia quando ero ancora in Italia. Non ne so molto più di quanto mi sia capitato di sentire e le cose peggiori sono quelle che ho immaginato nei momenti in cui non sono riuscita a non pensarci. Mi sono fatta bastare il concetto essenziale – mio padre è morto – e un unico dettaglio, quello sensazionale: è morto in un incidente aereo. Lo usavo da bambina – suscitava negli altri un misto di imbarazzo e stupore che aveva l’effetto positivo di troncare la conversazione mettendomi al centro dell’attenzione.”

Questa è una storia poco nota, che è rimasta per troppo tempo sepolta nel passato. Per l’autrice, non deve essere stato per nulla facile trovare la forza di raccontare. Questo intenso lavoro della Giampaoli da un lato rende onore alla memoria delle persone che hanno perso la vita in quell’incidente, dall’altro serve anche probabilmente all’autrice per elaborare il lutto e servirsi del potere salvifico della parola per continuare a vivere conservando intatto il ricordo di chi non è più.

Molto belle anche le parole che la casa editrice Neo Edizioni usa per presentare questo lavoro: “Il resoconto è un ibrido: indubbiamente una storia autobiografica, ma non solo un diario di viaggio. Noi, a dire il vero, l’abbiamo letto come un romanzo d’avventura. Lo stile è molto maturo, nonostante sia un esordio. Ci ha convinto, soprattutto, il modo in cui l’autrice ha saputo trattare la questione. Totalmente immersa eppure distante; lirica senza mai essere melensa; “accogliente” nell’accezione più pura del termine.”

Un libro da leggere.

Antonio Benforte

Il lavoro dopo la pandemia: riflessioni su smart working e ritorno alla normalità

Quanti di voi hanno davvero voglia di tornare alla “vecchia vita” sul lavoro? Siamo tutti d’accordo che è necessario trovare il modo per convivere con il virus, tornando a comportarci in un modo più o meno normale.
Ma la pandemia ha messo in evidenza tutte le storture del lavoro moderno, che, appare chiaro, è necessario ripensare dalle fondamenta.

Prima del covid-19 la vita di un genitore-lavoratore normale, come me, era: almeno un’ora di traffico al mattino, almeno 8 ore di lavoro, incontri – alcuni piacevoli, altri molto meno – bocconi amari da mandare giù, un’altra ora e mezzo di traffico al ritorno. Restavano 4, 5 ore al massimo di tempo per la famiglia, gli hobby, la spesa, le questioni personali. Qualche ora di sonno e via, si ricominciava, in un eterno giorno della marmotta.

L’equazione maggiore numero di ore di lavoro uguale maggiore produttività, è stata disintegrata e smentita per molte professioni da uno smart working che, se bene applicato, risolverebbe moltissimi problemi con cui dobbiamo confrontarci di nuovo tutti: traffico, sovraffollamento gli uffici, mancata sanificazione degli ambienti di lavoro, sostenibilità dei processi produttivi.

Spesso, da casa si riescono a fare più cose in meno tempo. Le tecnologie permettono di garantire elevati standard lavorativi e, per molte nuove professioni, di mantenere inalterato, se non addirittura migliorare la qualità dei risultati. Call, email, chat, ci permettono di essere costantemente connessi e di lavorare 24 ore su 24, ma dall’altro lato questa modalità di lavoro liquida e dilatata, rende il lavoro diluito e permette di riappropriarci dei nostri tempi e dei nostri spazi.

Insomma, tornare alla normalità lavorativa significa anche farlo con intelligenza. Altrimenti, a cosa sarebbe servita questa pandemia?

Antonio Benforte