“Azzorre” di Cecilia Maria Giampaoli

“Azzorre” di Cecilia Maria Giampaoli

Ho letto “Azzorre” di Cecilia Maria Giampaoli, edito da Neo Edizioni e da poco arrivato in libreria. Un testo sofferto e toccante, in cui la scrittrice mette a nudo sé stessa e il dolore che si porta dentro, da più di 30 anni. La data attorno cui ruota tutto è l’8 febbraio 1989. “Un aereo sorvola l’oceano. È partito da Bergamo diretto a Punta Cana. L’equipaggio si prepara a fare scalo alle Azzorre, sull’isola di Santa Maria. Alle 13:08, ora locale, un boato. L’aereo si schianta contro il versante di una montagna. Niente fiamme. Nel bosco cala il silenzio. 144 persone perdono la vita, io perdo mio padre. Le testimonianze raccolte in questo diario non possono né vogliono sostituirsi in alcun modo ai fatti accertati dalle indagini, ormai chiuse, sul caso. Nel rispetto delle persone incontrate e delle loro storie, tutti i nomi sono stati cambiati.” Cecilia ci immette subito nel vivo di questa narrazione che mescola il racconto personale, i ricordi, le testimonianze di chi ha vissuto questa grande tragedia.



Ai tempi Cecilia aveva 6 anni. Era una bambina, che 25 anni dopo decide di partire per l’arcipelago portoghese. E affrontare tutto.
Prende coraggio e rivive quei momenti, quei ricordi lontani, quel dolore sempre vivo, anche a distanza. Con la giusta consapevolezza, ormai donna, intraprende un viaggio “fatto di persone e luoghi, di testimonianze, ricordi, reticenze, incontri fortuiti e voluti; un viaggio privo di compatimenti, intrapreso nella speranza che possa esistere una verità di altra sostanza, a suo modo liberatoria”.


Quel che ne esce parte come un diario personale, ma poi diventa molto di più.
“Non ho un vero programma per questo viaggio e seguire il corso degli eventi mi sembra comunque la soluzione migliore, l’unica” scrive Cecilia nelle prime pagine del libro.

Cecilia incontra persone, parla con la gente, cercando di ricostruire il passato, di dare un senso a tutto.
Nel farlo, intende ricordare suo padre. «Le persone che muoiono non scompaiono, si manifestano in noi, nei nostri cambi d’umore e in questo modo ci seguono nel corso della vita» spiega a un certo punto Tadeu Manuel Duarte, responsabile di una delle chiese di Lisbona, con il quale dialoga Cecilia prima di decollare verso l’arcipelago.

Nelle pagine del libro, che pur non essendo propriamente un romanzo ne conserva una certa struttura e originalità, sono tanti gli incontri che fa in diversi luoghi. Il suo è un vero e proprio viaggio catartico, necessario. Un diario semplice nella scrittura ma commovente e stratificato nei contenuti. Gli occhioni grandi della bimba in copertina, ora adulto io narrante, provano a ricostruire tutto.

Il viaggio vero e proprio inizia: “Nel pomeriggio mi imbarco sul volo per le Azzorre. Lascio Lisbona diretta verso il centro dell’Atlantico, dove passerò le prossime settimane. Non conosco nessuno. Non serve che spieghi nel dettaglio come sono riuscita a trovare gente disposta a ospitarmi. Questione di fortuna: ho trovato alcuni indirizzi, ho scritto delle mail, qualcuno ha risposto. La prima è stata una donna, so solo che si chiama Teresa.  Starò da lei per qualche giorno. Verrà a prendermi in aeroporto. Così ha detto”.

I periodi sono brevi, incisivi. Piano piano si compone il quadro. Frammenti, tessere di un puzzle: “L’aereo si schiantò contro la montagna. È unica e centrale.” O ancora, dice Cecilia: “Non sono venuta per riportare in vita mio padre, il passato è passato e non si può rifare, ma ho un conto aperto con questo posto. Nel male e nel bene, sarei diversa se non fosse successo. Non sarei io.”

Cecilia esplora. Cecilia studia. Cecilia vuole conoscere il posto in cui per suo padre è tutto finito. La narrazione procede con questi che sono dei piccoli racconti, delle piccole istantanee della vita sull’isola. Nel leggerli, sembra di starle accanto, di fare questo viaggio insolito insieme a lei. Molto spesso il racconto diventa commovente, oltre che estremamente interessante sotto diversi punti di vista. Ci si prova a immedesimare nella protagonista, ma non ci si può riuscire. Ma non per demeriti della narratrice, anzi, ma perché questo dolore non può che essere un peso inimmaginabile, difficile da spiegare a parole. Ma non per questo si deve rinunciare a narrarlo, a raccontarlo, per capire e comprendere. Il romanzo reportage diario continua e Cecilia completa il suo percorso di ricostruzione e costruzione, di una memoria e di un passato che in tanti hanno dimenticato.

A un certo punto il racconto si fa ancora più toccante e spiazzante: “Leggere la cronaca sull’incidente qui, all’aeroporto di Santa Maria, mentre le due turiste leccano il gelato, è surreale. Non so perché non l’abbia fatto prima, perché non abbia cercato i dettagli di questa storia quando ero ancora in Italia. Non ne so molto più di quanto mi sia capitato di sentire e le cose peggiori sono quelle che ho immaginato nei momenti in cui non sono riuscita a non pensarci. Mi sono fatta bastare il concetto essenziale – mio padre è morto – e un unico dettaglio, quello sensazionale: è morto in un incidente aereo. Lo usavo da bambina – suscitava negli altri un misto di imbarazzo e stupore che aveva l’effetto positivo di troncare la conversazione mettendomi al centro dell’attenzione.”

Questa è una storia poco nota, che è rimasta per troppo tempo sepolta nel passato. Per l’autrice, non deve essere stato per nulla facile trovare la forza di raccontare. Questo intenso lavoro della Giampaoli da un lato rende onore alla memoria delle persone che hanno perso la vita in quell’incidente, dall’altro serve anche probabilmente all’autrice per elaborare il lutto e servirsi del potere salvifico della parola per continuare a vivere conservando intatto il ricordo di chi non è più.

Molto belle anche le parole che la casa editrice Neo Edizioni usa per presentare questo lavoro: “Il resoconto è un ibrido: indubbiamente una storia autobiografica, ma non solo un diario di viaggio. Noi, a dire il vero, l’abbiamo letto come un romanzo d’avventura. Lo stile è molto maturo, nonostante sia un esordio. Ci ha convinto, soprattutto, il modo in cui l’autrice ha saputo trattare la questione. Totalmente immersa eppure distante; lirica senza mai essere melensa; “accogliente” nell’accezione più pura del termine.”

Un libro da leggere.

Antonio Benforte

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