“Vietato calpestare i sogni”

“Vietato calpestare i sogni”

1.

“Vietato calpestare i sogni”: quella frase mi tornò in mente proprio mentre stava terminando il giorno. Per tutto il pomeriggio i fuochi avevano continuato a bruciare sul vulcano, senza sosta. E la sera che iniziava a calare sul paese portava con sé una spessa coltre di polvere, una cappa d’aria pesante e irrespirabile.

“Continua a bruciare” dissi io mentre entravo a marcia indietro nel vialetto dietro casa, per parcheggiare senza problemi.
“Il vulcano brucia ancora, sì” fece lei con lo sguardo annoiato, puntando gli occhi verso l’alto, alla cima arrotondata del cratere.
Aveva passato tutto il viaggio da Napoli con gli occhi fissi sul cellulare. A ogni curva che prendevo, a forte velocità, inclinava leggermente la testa a destra o a sinistra, sembrava riemergere da quella trance tecnologica, e poi ritornava, apatica, a osservare lo schermo luminoso.
Scesi anche io dall’auto e guardai verso il monte. Mi sembrava che i roghi sulla vetta stessero aumentando di intensità. Entrando in casa, seguendola a piccoli passi veloci, mi tirai velocemente la porta di casa alle mie spalle, senza però riuscire a impedire alla puzza di bruciato di insinuarsi, torbida e strisciante.

La trovai in cucina, già davanti alla tv, accesa sul tg della sera. Un giornalista evidentemente sovrappeso aveva assunto un’aria seria e contrita, per annunciare che gli incendi erano tutti di origine dolosa e che la superficie interessata dall’incendio era ormai superiore ai due km. Alcuni comitati locali avevano richiesto lo stato di calamità e alcune decine di persone erano già state costrette ad abbandonare le proprie case.
Fissava lo schermo piatto, con uno sguardo triste e gli occhi malinconici. Mi fermai alle sue spalle, avrei voluto accarezzarle i capelli, ma non lo feci.
Mi diressi verso la porta-finestra del soggiorno, ma non mi azzardai ad aprirla, per non permettere alla puzza di entrare. Il giardino all’esterno era secco, anche quello quasi bruciato a causa della mia noncuranza. Le pennellate rosse sui pendii della montagna sembravano ferite sempre più ampie.

2.

I lunghi silenzi che avevano segnato le nostre ultime settimane continuavano a farmi male. L’incredibile caldo ci impediva di respirare, e avevamo ridotto al minimo le conversazioni, come per risparmiare aria e dedicarci ad altre attività, in quel momento più importanti.
Le chiesi se avesse già ricevuto la telefonata. Alzò gli occhi dal cellulare, e scosse leggermente la testa.
“Chiameranno oggi, al massimo lunedì”, dissi sottovoce.
Annuì, poco convinta, e continuò a giocare con qualche applicazione.

Picchiettai le dita sul tavolo e presi il cordless. Non avevo idea di chi chiamare, e feci l’ultimo numero tra le chiamate ricevute. Mia madre rispose al quarto squillo, un attimo prima della segreteria. Anche lei mi chiese se ci fossero novità, ricevendo in cambio una risposta piccata e la richiesta di non domandare sempre le stesse cose. Chiameranno presto, siamo in attesa. Poi anche lei spostò il discorso sull’incendio, il vulcano, mi disse per l’ennesima volta che abitare alle pendici del Vesuvio era stata una follia, che era come stare su una pentola a pressione.
“Meglio un appartamento più piccolo ma in città”, mi disse ancora una volta.
“Sì,” risposi io, ma in realtà già non la stavo più ascoltando.
Riattaccai e accesi la radio: Napoli non merita questo, diceva un ministro, forse quello dell’ambiente. Subito dopo lo speaker fece un’altra domanda e poi congedò il politico. Concluse dicendo che avrebbero preso i colpevoli e li avrebbero consegnati alla giustizia, ma sembrava ovviamente una frase fatta senza alcun tipo di credibilità.

L’intermezzo giornalistico lasciò lo spazio a una canzone allegra, funky, che stonò in modo evidente con la gravità del tema trattato fino a due minuti prima. Alzai leggermente il volume, come per distrarmi, e la raggiunsi a letto. Durante il weekend ci prendevamo ormai molto tempo per noi, per riposare e ricaricare le pile, come diceva sempre il mio vicino di casa. La trovavo una cosa assurda, lavorare come un matto per cinque giorni e poi passarne due in casa a ricaricare le batterie, spesso senza far niente, sonnecchiando. E il lunedì di nuovo in ufficio. Era sdraiata supina con lo sguardo perso nel vuoto, le chiesi come andava, mi rispose “tutto ok”, senza troppa convinzione.
“Vedrai, chiameranno”. Mi chinai su di lei e le baciai la fronte.

3.

Odiavamo uscire il sabato sera: troppo traffico, troppi ragazzini, cibo spesso scadente rispetto al resto della settimana e parcheggio introvabile. Ma in questo caso non vedevamo l’ora di catapultarci fuori di casa. Gli incendi erano sempre più ingovernabili e stavano per raggiungere le prime case.
I canadair andavano avanti e indietro senza sosta, ma di notte non potevano agire. Era in quei momenti che il fuoco trovava di nuovo spazio, prepotente si faceva spazio tra gli alberi della macchia mediterranea distruggendo tutto. Il cielo, al tramonto, ora era completamente rosso.

Chiamammo due amici e uscimmo, senza una meta ben precisa. Mi accesi svogliatamente una sigaretta, aggiungendo catrame a quell’aria già irrespirabile.
Lei mi guardò come se avesse dimenticato che avevo ripreso a fumare, complice lo stress. Le chiesi se avesse portato le bottigliette d’acqua, piccolo aiuto per sopravvivere alla calura e alla cappa di cenere e fumo sempre più opprimente.

In auto me ne porse una, la aprii e feci un grande sorso. Pensai a quanto fosse importante l’acqua per noi, per la vita.
“Forse ti sei vestito troppo pesante” mi disse. “Magari puoi rientrare a casa e metti un pantaloncino, al posto dei jeans”.
Ci pensai un po’ su, ma avevo già acceso l’aria condizionata e non avevo voglia di rientrare.
Misi in moto e mi diressi verso Napoli, lasciandomi alle spalle le fiamme che non avevano intenzione di spegnersi.
La serata passò rapidamente, il nostro amico raccontò un paio di barzellette memorabili e mangiammo un ottimo sushi. Non ci chiesero nulla, non toccammo l’argomento. La bella serata ci fece per qualche ora dimenticare l’atmosfera tesa, i fuochi a due passi da casa e il clima sospeso di attesa e impotenza che aveva caratterizzato le nostre ultime due settimane.
Rientrammo a casa rapidamente con un fazzoletto sul naso e la bocca, ci barricammo dentro dopo aver sentito il tg notte. Eravamo così stanchi che dimenticammo l’aria condizionata accesa, e dormimmo abbracciati così stretti, non lo facevamo da tempo.

4.

La domenica passò in un lampo e il lunedì arrivò come una mannaia sulle nostre teste. Non eravamo pronti, non eravamo riposati. Il collo bloccato mi causò delle leggere vertigini per tutta la giornata.
Le giornate al lavoro passarono anonime, tornando a casa avevo la bocca impastata. Arrivai prima di lei, come spesso accadeva ultimamente. Misi su l’acqua per la pasta e un disco di Miles Davis.

Sentii la chiave girare nella serratura e quando mi voltai lei mi accolse con un sorriso, come non accadeva da tempo. Era di buonumore, si vedeva.
Avevo fumato poco durante la giornata e il suo bacio sulle labbra fu per questo ancora più gradito. Mi rinfrescò, svegliandomi da un torpore che mi ero trascinato durante tutto il giorno.
Rientrando avevo visto che la situazione sul vulcano era in netto miglioramento. Erano arrivati altri due canadair e il viavai dal mare era stato costante. Ettolitri ed ettolitri d’acqua erano stati riversati per ore sulle piante agonizzanti, dando finalmente sollievo.
L’aria stava tornando respirabile.

Ci sedemmo a tavola davanti a un bel piatto di spaghetti al pomodoro fumanti, due calici ampi di vino rosso.
Alla tv il telegiornale diede la notizia: “Incendio nel parco nazionale, preso il piromane. Incendiati 10mila metri quadrati di vegetazione, ma la situazione sta tornando alla normalità”.
In quello stesso momento squillò il telefono. Avevo dimenticato il motivetto epico e trionfante della suoneria del fisso. Corse lei a rispondere, uno scatto pronto e deciso. Portò la cornetta all’orecchio, era la telefonata che aspettava. Abbassai il volume delle tv per non darle fastidio, mentre al tg mandavano le immagini della natura provata dal fuoco, ma non ancora del tutto distrutta.

Lei mi guardò, era una buona notizia. Finalmente, sorrise.

Antonio Benforte

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