“Prosimetro della Consuetudine” di Vincenzo Gambardella
Ci vuole coraggio, al giorno d’oggi, a scrivere. A scrivere sul serio. Una scrittura vera, che si fa mistero, che si fa enigma, che diventa poesia e anche quando resta prosa, risulta creativa e poetica.
E ci vuole coraggio, bisogna dirlo, a intitolare un’opera “Prosimetro della Consuetudine”, ma Vincenzo Gambardella, che è per me attualmente uno dei grandi narratori della nostra epoca, ci ha abituato al non intraprendere mai una strada facile. Io ho avuto l’onore di seguirlo nelle sue recenti scorribande letterarie, e ho assaporato libro dopo libro la sua straordinaria creatività, il suo saper spaziare tra i generi e i registri linguistici, il suo essere sinceramente e mai banalmente prolifico, soprattutto negli ultimi dieci anni di narratore.
Ed eccolo allora qui ad una nuova prova letteraria, il breve ma denso Prosimetro della consuetudine, uno “uno squarcio narrativo sulla linea retta del tempo ordinario, un racconto franto tra prosa e versi che si ricompone nel vicolo di un incontro improbabile tra la voce narrante e un cieco” come leggiamo in bandella, nella pregevole edizione Fallone Editore.
Un canto d’amore e morte disperato e immensamente bello, questo di Gambardella, che ha qui un’eco di Moresco e Tonon, lì un richiamo velato a un Borges metropolitano – il cieco? Ma anche la scrittura, la poesia, la stratificazione delle parole – ma che alla fine esplode in un linguaggio e in uno stile tutto suo, tutto personale, che lo rende davvero uno dei grandi scrittori di questi ultimi vent’anni.
La storia, che serve fino a un certo punto, è relativa, qui parliamo di un’opera che va al di là della trama, del plot, vede incontrarsi il protagonista, malato, e un cieco, che vive con la madre. I due si sfiorano, si incrociano per poi raccontarsi, autonarrarsi, dallo psicanalista. È lì che le due solitudini si incontrano e trovano nuova forma. Ed è nella sala dello psicanalista che i due racconti sfumano e si confondono, tra prosa e poesia, amore e morte, e la figura di una madre amorevole e immensa, che nell’ultima parte diventa il fulcro di tutto, in un crescendo di lirismo e pathos.
“Si è soli a cercare di capire
Tesi come questi fili nello spazio,
nell’aria che lui e io abbiamo sulla testa,
ma c’è qualcosa che resiste alla natura?
I muri si gonfiano
I pavimenti si avvallano,
le porte si bloccano.
Tutto si dissesta
Solo le grida di sua madre,
dentro di lui,
sono sempre le stesse,
e i suoi gemiti,
che sono gli stessi dell’amore.
“Cosa crede che io non conosca l’amore?
-Recitò quasi –
Che non sappia riconoscerlo?
Lo conosco come chiunque altro.
Ognuno con il suo amore che manca,
Ognuno la sua particella d’amore
La sua pillola, il suo farmaco”.
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