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Il tassista di Oporto

Partiamo da Oporto in piena notte, per fortuna finalmente senza pioggia. Niente metro per arrivare all’aeroporto, ancora chiusa, quindi prendiamo un taxi. Lo guida Angelo, un personaggio che sembra uscito da un romanzo tutto ancora da scrivere.

Una sessantina d’anni, occhi grossi e dolci e pochi capelli bianchi spettinati, giacca militare logora e tanta, tanta voglia di parlare dell’Italia. Sua mamma originaria di un paesino calabrese e lui, la Calabria, la porta ancora nel cuore. “Ah, che bella la Calabria, pietra arida, gente allegra… lì c’è ancora un vecchio zio, molto anziano, a giugno vado, non si sa mai a questa età… Ogni volta che vengo in Italia tutti dicono sempre: resta qui, non andare”.
Il suo italiano, balbettante all’inizio, diventa mano a mano più corretto. “Mi vogliono sempre trattenere, l’Italia è così bella ma non posso più di 10 giorni…”.

Parliamo di sua figlia che lavora a Londra, del clima mai così freddo e piovoso a Oporto, di tutta la tecnologia di cui non abbiamo bisogno e che riempie le nostre vite, mentre nella notte lusitana l’auto sfreccia sulla superstrada e rapidamente ci porta all’aeroporto. 

Arriviamo molto presto, è ancora buio, buio pesto. Ci stringe la mano e ci saluta con grande affetto, come fossimo suoi figli. “In bocca al lupo per tutto, mi ha fatto piacere incontrarvi” dice salutandoci “Che bella che è, l’Italia…”. Con la mano faccio un altro cenno mentre entriamo nelle porte girevoli dell’aeroporto, penso a quanto sia stato sincero e fortunato questo incontro.

È ancora notte e penso ad Angelo che ama così tanto il nostro paese, che agli occhi degli stranieri sembra un posto così magico, quasi da sogno, mentre per noi che lo viviamo dall’interno, troppe volte si trasforma in un incubo…